Mimose? No grazie

di ClaraSereni

Spero proprio che qualche bella mente non pensi, oggi, di regalarmi la mimosa. Via via che gli anni passano, attorno all’8 marzo mi si addensa un agglomerato di rabbia impotente che non lascia alcuno spazio a festeggiamenti, e nemmeno alle cene allegramente separate che per molto tempo hanno connotato le donne italiane, e anche me.
Per non dire degli spogliarelli maschili che, in una certa fase, hanno raccolto in balere e discoteche un successo che non mi ha mai entusiasmato, ma che pure segnava un tentativo divertito di rovesciare il mondo, perché non fosse più a misura soltanto di maschi.

Credo sia inutile enumerare le tante ragioni che mi rendono rabbiosa e impotente: chiunque legga i giornali sa del deficit di democrazia che l’Italia patisce per la percentuale vergognosa con cui le donne sono presenti nelle stanze dei bottoni, siano esse istituzionali o delle imprese, ed è di questi giorni la notizia (la conferma) che nel mondo la povertà ha il volto delle donne. I dati sul lavoro (o sulla disoccupazione) femminile restano inquietanti da noi, dove pure notoriamente le donne studiano e si formano di più e meglio, e non fanno primavera nel mondo le donne (si chiamino Merkel o Bachelet) che giungono alla guida di nazioni pur importanti.
L’elenco potrebbe continuare. Mentre non si vedono, all’orizzonte, grandi ragioni di ottimismo: la grande spinta di libertà femminile che ha attraversato l’Occidente e non solo fra gli anni Sessanta e Settanta sembra sepolta sotto le macerie di un mainstreaming di cui molto si è parlato, ma che non sembra poi aver inciso concretamente sulla vita delle persone.

In tale sconfortante panorama, forse non è strano che anche chi degli anni “forti” è stata protagonista oggi ne rimuova gli aspetti positivi permanenti, quelli che comunque hanno cambiato alla radice il costume del nostro e di altri Paesi. Penso ad esempio ad Anna Bravo, e ad un suo articolo (Repubblica, 4 marzo) in cui la libertà femminile di procreare o no, inedita e precaria fino all’avvento della pillola, scompare, e quel che resta è soltanto il ricatto maschile che sulla nostra sessualità, non sempre e non in tutti i casi, ha continuato ad esercitarsi.
Non è vero che niente è rimasto, che tutto si è perduto, che non ne valeva la pena. Non è vero che ogni diritto conquistato ci si è ritorto contro, o ha perso di valore. Fra mille contraddizioni, e con tutte le difficoltà legate ad ogni «passaggio di testimone», quella libertà e quei diritti li abbiamo trasmessi alle nostre figlie, a chi è venuta dopo di noi. Come abbiamo trasmesso ai maschi, figli o no, un approccio al lavoro di cura, e dunque alla convivenza, che tenta di essere diverso dal passato.

Non sempre ne hanno fatto e ne fanno buon uso, gli uni e le altre: perché ogni generazione ha bisogno di comportarsi in maniera diversa dalla precedente, e perché la rivoluzione non si fa in un giorno o in una generazione. Tanto più quando Aids e droga modificano il panorama della sessualità, innervandolo di violenza e di morte. Ma non sono certamente più come noi eravamo, donne e uomini nella prigione di tabù che oggi si fatica perfino a ricordare, pur nei nuovi integralismi che si fanno avanti con prepotenza.

Volevamo cambiare il privato, e il privato è cambiato: anche se i cambiamenti non sempre ci piacciono. Quello che non siamo riuscite a fare è la saldatura fra privato e politico che era nei nostri slogan, e che proprio non si è realizzata. Chi si è trovata a interpretare ruoli pubblici, di un tipo o dell’altro, ha dovuto vestire panni maschili, oppure – in alternativa ma non tanto – panni che ai maschi andassero molto a genio. Come si dice, il privato non è entrato, se non accidentalmente, nell’agenda della politica.
Eppure siamo cambiate, in profondità. E la società è cambiata, ben più di quanto non sia riuscita a cambiare noi. Per questo, se mi regalassero una mimosa, credo che la butterei via subito con stizza: ma non la porterei certo al cimitero, fra le tombe delle speranze e delle ambizioni. Perché resto convinta che quel rinnovamento profondo di cui la politica, il nostro Paese, il mondo intero ha bisogno, senza le donne non è possibile farlo.
Questo dobbiamo ricordarcelo in ogni momento noi, le donne di ieri e di oggi: senza perdere la speranza che anche qualche maschio si arrenda finalmente alla realtà, e cominci a cambiare anche lui. Di testa e di pancia.
Fra le lenzuola, davanti al lavello, a fare la spesa, e nell’arena della politica.
Non per generosità: per un po’ di intelligenza. Perché nel mondo così com’è le donne sono e restano povere, umiliate, coartate. Ma neanche gli uomini, a dir la verità, ci vivono molto bene.